CRISI CLIMATICA
Scioglimento dei ghiacciai
Uno degli effetti più evidenti del cambiamento climatico è senza dubbio il progressivo scioglimento dei ghiacci di tutto il mondo. Questo tema, che troviamo spesso nelle prime pagine delle riviste “green”, è senza dubbio tra i più noti, ma al tempo stesso è uno di quelli su cui si ha più incertezze. L’obiettivo di questo modulo è di esaminare questa problematica da diversi punti di vista, analizzandone cause e conseguenze, per provare a fare un po’ di chiarezza sull’argomento.
Lo scioglimento dei ghiacci
Anzitutto (scontato, ma fondamentale) è necessario fare presente che lo scioglimento dei ghiacci, di per sé, è un processo del tutto naturale dovuto alla trasformazione fisica della materia: è alla base del ciclo che comporta scioglimento, evaporazione, precipitazione e solidificazione dell’acqua. In condizioni ideali, questo ciclo è in una sorta di equilibrio in cui la quantità di ghiaccio che si scioglie si forma nuovamente con minime variazioni. Questo processo, quindi, diventa un problema quando viene a mancare il concetto di equilibrio, ovvero quando la quantità di ghiaccio che si scioglie è molto maggiore di quella di ghiaccio che si forma.
Al contrario di quello che si pensa generalmente, il problema non è nato negli ultimi anni, in cui ha semplicemente acquisito maggiore portata che, collegato ad una notevole sviluppo mediatico, ha portato ad una maggiore conoscenza.
Le cause
La causa principale di tutto, chiaramente, è proprio il riscaldamento globale di cui sentiamo tanto parlare. Da quando le temperature hanno iniziato ad aumentare vertiginosamente, il processo si è accelerato ulteriormente, tanto da sorprendere gli stessi esperti che stavano studiando il fenomeno. Uno studio dell’Università di Leeds ha confermato che la perdita di ghiaccio in Groenlandia e in Antartide sta seguendo l’andamento suggerito dalla peggiore ipotesi dell'Intergovernmental Panel of Climate Change: lo scioglimento sta aumentando a velocità pari a sei volte rispetto agli anni Novanta.
L’attuale temperatura media mondiale è più alta di 0,85°C rispetto ai livelli della fine del diciannovesimo secolo. I più grandi esperti di clima a livello mondiale, oltre a ritenere che l’attività dell’uomo sia il motivo principale di questo aumento delle temperature osservate dalla metà del secolo scorso, considerano un aumento di 2°C rispetto alla temperatura dell’era preindustriale come la soglia oltre la quale i mutamenti ambientali sarebbero catastrofici a livello mondiale.
Oltre a questo, la situazione risulta ancora più delicata dal momento che, quando una massa di ghiaccio entra a contatto con l’acqua, tende a sciogliersi più velocemente. Questo meccanismo mette in moto una sorta di “circolo vizioso” per cui lo scioglimento del ghiaccio comporta un inabissamento di masse di ghiaccio che, a contatto con l’acqua, si sciolgono. È per questo motivo che, secondo Michalea King, ricercatrice presso il Byrd Polar and Climate Research Center, anche in caso di interventi mirati contro il riscaldamento globale, la calotta glaciale continuerebbe a sciogliersi.
Le conseguenze
Sono moltissime le conseguenze che lo scioglimento dei ghiacciai può avere sul Pianeta, con effetti drammatici per l’ecosistema nel suo complesso, compresi l’uomo e gli animali. Possiamo vedere già oggi i primi segnali, come la modifica di alcuni habitat naturali e la scomparsa di varie specie della fauna e della flora mondiale.
Uno degli effetti diretti che si stanno registrando, e che incutono timore, è l’aumento del livello dei mari: uno studio condotto nel 2018 dall’Università di Bristol ha rivelato che lo scioglimento completo dei ghiacci in Antartide potrebbe portare a un aumento del livello dei mari di 58 centimetri. Se lo stesso fenomeno dovesse accadere in Groenlandia, dove è presente una delle masse ghiacciate più estese del mondo, la crescita potrebbe essere addirittura di 7.4 metri. L’aumento dei livelli degli oceani porterà alla sommersione delle principali città su coste e lagune, costringendo le popolazioni di tali luoghi ad emigrare.
Il cambiamento climatico, che come abbiamo detto è una delle cause di questo processo, si rivela esserne anche una conseguenza. Questo perché l’aumentata massa di acqua liquida potrebbe portare a gravi alterazioni del clima, con modifiche delle correnti cicloniche in tutto il mondo. Si potrebbero moltiplicare, pertanto, fenomeni come uragani e trombe d’aria, con una tropicalizzazione delle aree più a nord del globo, ma anche un aumento degli incendi e della desertificazione nei pressi dell’Equatore (abbiamo già visto negli ultimi anni vari esempi di ciò). In secondo luogo, diminuendo le aree “bianche” del globo, rappresentate da nevi e ghiacci, aumenterebbe la quantità di calore assorbita dal terreno, comportando un ulteriore aumento delle temperature. Questo perchè le zone in questione sono in grado di riflettere le radiazioni che provengono dal sole.
Tutto questo, inoltre, ha come effetto secondario un problema di cui siamo ben a conoscenza: la riduzione della biodiversità. Le prime vittime dell'aumento delle temperature sono quelle specie che vivono negli angoli più freddi del pianeta, dove il ghiaccio che un tempo era perenne si sta sciogliendo e riversando in mare, stravolgendo l'ecosistema e mettendo in particolare difficoltà animali come gli orsi polari, che siamo abituati a vedere in prima pagina, la cui sopravvivenza dipende direttamente dalla presenza di ghiaccio. Tuttavia, gli orsi non sono gli unici animali che vengono influenzati da questo tipo di cambiamento: varie specie tropicali, come le tartarughe, sono costrette, a causa dell’aumento delle temperature dell’acqua, a migrare verso latitudini più fredde, intaccando l’intero ecosistema.
La comunità scientifica teme che il danneggiamento della biodiversità possa riguardare, in maniera piuttosto seria, anche le specie di origine vegetale: primi tra tutti, i funghi di bosco. Uno studio condotto a Stanford e pubblicato sul Journal of Biogeography, infatti, afferma che un quarto delle specie fungine delle foreste nordamericane (dove è stato condotto lo studio), potrebbe sparire entro il 2070. Ma questo cosa c’entra con lo scioglimento dei ghiacci? Molto semplicemente, il conseguente aumento delle temperature andrà a influenzare anche le foreste in cui questi funghi crescono, facendoli scomparire. Il fatto che molti appassionati di funghi dovranno trovarsi un altro passatempo per il weekend non è l’unico disastroso effetto. I funghi, infatti, sono un fattore decisivo anche per la crescita degli alberi: proteggono le loro radici, contrastando quindi l’erosione del suolo, accumulano CO2 e favoriscono la crescita dei loro ospiti, aiutandoli nell'assimilazione dell'azoto. Le foreste boreali rischiano quindi di trovarsi all'improvviso al caldo, e senza alcuna protezione dalle temperature più elevate.
Artico e Groenlandia
Le immagini che ci vengono in mente quando sentiamo parlare di scioglimento dei ghiacci rimandano quasi tutte alle vaste zone artiche e della Groenlandia. Questo perchè, come ci potremmo aspettare, è proprio in quei luoghi che si vede l’effetto disastroso dell’aumento delle temperature comporta.
Verso la fine dell'estate 2007, ad esempio, sono giunte ad un ritmo frenetico le notizie relative all’accelerazione dello scioglimento dei ghiacci. Agli inizi di settembre di quell’anno, il giornale londinese The Guardian ha scritto: “Quest’estate la calotta artica si è ridotta ad un ritmo senza precedenti e lo spessore della banchisa polare è ai minimi storici”. Gli esperti sono rimasti sbalorditi dalla fusione in una sola settimana di un’area ghiacciata pari a quasi due volte l’estensione della Gran Bretagna.
Nonostante tutti i movimenti ecologisti degli ultimi anni, e nonostante questa problematica sia notevolmente più conosciuta, la rivista Nature Communications Earth and Environment afferma che lo scioglimento dei ghiacciai della Groenlandia è arrivato al «punto di non ritorno». Questi sono i risultati di uno studio che prende in esame osservazioni trentennali della calotta glaciale presente sull’isola dell’oceano Atlantico. La ricerca afferma che ormai si è infranto l’equilibrio che, fino agli anni novanta dello scorso secolo, vedeva la neve accumulata compensare sostanzialmente la quantità di ghiaccio sciolto. Anche se oggi si arrestasse il riscaldamento climatico, dichiarano gli esperti, la situazione sarebbe comunque compromessa. Michaela King, inoltre, afferma che prendendo in considerazione le osservazioni satellitari, si è supposto che le nevicate invernali non riescano a contrastare lo scioglimento del ghiaccio. I ghiacciai, inoltre, si sono ridotti abbastanza da far sì che molti di loro si trovino in acque più profonde, il che significa che è aumentata la quantità di ghiaccio a contatto con l’acqua, che scioglie ulteriormente il ghiaccio e rende ancora più arduo il ritorno alle condizioni precedenti.
Tutto ciò spiega al meglio i dati raccolti nel 2019, secondo cui la Groenlandia ha perso 1 milione di tonnellate di ghiaccio al minuto, in tutto 532 miliardi di tonnellate, segnando un record millenario.
I ghiacciai montani
Come abbiamo ormai capito, lo scioglimento dei ghiacci è un argomento di cui sentiamo spesso parlare. Al contempo però, essendo spesso presi in esame posti del mondo lontani da noi, consideriamo il problema in modo distaccato, come se ci influenzasse relativamente.
Purtroppo, lo scioglimento dei ghiacci non riguarda solo l’Artico e la Groenlandia, ma anche tutte le zone montane (di cui l’Italia è ricca).
"Nell'ultimo secolo, i ghiacciai delle Alpi hanno perso il 50% della loro copertura. Di questo 50%, il 70% è sparito negli ultimi 30 anni". Sono queste le parole con cui Renato Colucci, glaciologo del Cnr, introduce il problema durante un’intervista all’ANSA nel 2019. I prospetti sono disastrosi: nel giro di trent’anni, a causa di una ritirata senza precedenti, i ghiacciai sotto i 3500 metri di quota sono destinati a scomparire. Fino agli anni Ottanta, quando le temperature non aumentano al ritmo a cui siamo abituati oggi, anche sotto i 3000 metri d’estate rimaneva uno strato di neve sopra il ghiaccio, preservandolo e permettendone la formazione di nuovo. Oggi, però, questo manto nevoso si scioglie con l’arrivo del caldo estivo, esponendo il ghiaccio montano al sole. Secondo Colucci, se non si riesce a contrastare il riscaldamento, nel giro di pochi anni potrebbero scomparire buona parte dei ghiacciai dell’arco alpino, ad eccezione di quelli delle alpi occidentali, più alte.
Ovviamente, questo problema non riguarda solo le Alpi, ma tutte le catene montuose del globo, comprese le grandi cime dell’Himalaya; per sentirci più toccati da questo problema, però, proviamo a prendere in considerazione le montagne “vicino” a noi.
Il World Glacier Monitoring Service riferisce mutamenti nei termini dei ghiacciai in tutto il mondo ogni cinque anni. Nella loro edizione del 2000-2005, 115 su 115 ghiacciai esaminati in Svizzera si stavano ritirando, 115 su 115 ghiacciai in Austria retrocedevano; in Italia, durante il 2005, 50 ghiacciai si stavano ritirando contro 3 stazionari; anche tutti e 7 i ghiacciai osservati in Francia stavano retrocedendo. I risultati, già scioccanti, lo diventano ancora di più se prendiamo in considerazione un arco temporale più ampio: a partire dal 1870, il ghiacciaio del monte Bianco, per citarne uno, si è ritirato di 1400m metri.
Le fotografie dei ghiacciai delle Alpi fatte nel corso del tempo forniscono prove evidenti che in questa regione i ghiacciai si sono ritirati significativamente nei diversi decenni passati. Il Ghiacciaio del Morteratsch, in Svizzera, è un esempio chiave (potremmo aggiungere delle foto). Fu nel 1860, durante la “piccola era glaciale”, che il ghiacciaio del Morteratsch raggiunse la sua massima estensione. Le misurazioni annuali della lunghezza cambiano a partire dal 1878: la recessione complessiva da quell’anno al 1998 è stata di 2 km con un tasso medio annuale approssimativamente di 17 m per anno. Questa media a lungo termine venne marcatamente superata in anni recenti: dal 1999 si sta sciogliendo a un ritmo di circa 40 metri l’anno, raggiungendo una ritirata complessiva di 3km.
Tutto questo, purtroppo, suggerisce un finale a dir poco disastroso.
Stiamo fermi a guardare?
Tutte queste brutte notizie ci fanno sentire un po’ impotenti di fronte ad un declino che, apparentemente, sembra incontrastabile. Quindi cosa facciamo, stiamo fermi a guardare i ghiacciai che scompaiono? Tutt’altro! A partire dalla fine del secolo scorso sono nati una serie di iniziative e progetti il cui obiettivo è proprio quello di studiare questo problema e contrastarlo.
Eccone, di seguito, alcuni particolarmente interessanti:
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Il progetto GlaRiskAlp nasce per dare risposte pratiche e teorico-applicative ai rischi causati dalla riduzione della massa e della superficie dei ghiacciai nelle Alpi occidentali. Per sviluppare una pianificazione del territorio ragionata e per migliorare la gestione dei rischi in ambito alpino, occorre che questi fenomeni siano presi meglio in considerazione, raggiungendo un livello più approfondito di conoscenza: di questo si occupa GlaRiskAlp, che riunisce in un unico progetto realtà specialistiche italiane e transfontaliere che si occupano di studiare la montagna e le sue pericolosità. Il progetto si articola in due tipi di attività: da una parte uno studio a carattere territoriale esteso a gran parte delle Alpi occidentali, dall'altra alcuni studi a carattere puntuale, che permetteranno di mettere in rete le conoscenze sviluppate dai partner;
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“Sulle tracce dei ghiacciai” è un progetto fotografico-scientifico che coniuga comparazione fotografica e ricerca scientifica al fine di divulgare gli effetti dei cambiamenti climatici grazie all’osservazione delle variazioni delle masse glaciali negli ultimi 150 anni. Con 6 spedizioni nell’arco di 10 anni destinate ai ghiacciai montani più importanti della Terra (Karakorum 2009, Caucaso 2011, Alaska 2013, Ande 2016, Himalaya 2018, Alpi 2020), il progetto ha lo scopo di sostenere studi originali e di realizzare nuove riprese fotografiche dallo stesso punto di osservazione, e nel medesimo periodo dell’anno, di quelle realizzate dai fotografi-esploratori di fine ‘800 e inizio ‘900. Il forte potere comunicativo dei confronti fotografici, unito ai risultati delle ricerche scientifiche, rappresenta un contributo allo sviluppo di una maggiore consapevolezza sull’impatto delle attività antropiche sul clima;
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L’organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO) ha avviato negli ultimi anni l’iniziativa bi-polare Polar Prediction Project, con lo scopo di migliorare la capacità previsionale in Artico, combinando campagne osservative intensive ed analisi modellistiche. Varie iniziative nazionali contribuiscono allo Year Of Polar Prediction, sia in Artide che in Antartide. Una nuova campagna intensiva in Artide è iniziata durante il periodo Febbraio-Marzo 2020; questa campagna sarà realizzata anche a supporto del programma MOSAIC, un esperimento internazionale dedicato al clima Artico. A questi esperimenti internazionali si aggiungono vari progetti portati avanti su scale temporali estese da vari Paesi.
Queste iniziative, e tante altre, sono un primo passo che suggerisce un maggiore coinvolgimento degli organi mondiali su questa tematica così delicata.
Come possiamo fare nel nostro piccolo?
Contrariamente a quanto si pensa, queste problematiche ci riguardano tutti per due motivi principali: innanzitutto, siamo tutti abitanti del pianeta e pertanto siamo coinvolti dai suoi cambiamenti; in secondo luogo, ognuno di noi ha una grande influenza sulla situazione e può fare “il proprio” per mitigarla. Come abbiamo ormai intuito, una delle principali cause di questo fenomeno è proprio l’aumento delle temperature collegato al cambiamento climatico. Quest’ultimo, come abbiamo visto prima, è dovuto principalmente dalle emissioni di CO2.
Proprio per questo motivo, quindi, è necessario trovare il modo per limitare il più possibile la nostra “impronta”, ossia le nostre emissioni. Questo, che apparentemente può sembrare poco, ha in realtà un grande impatto. Ma cosa possiamo fare, allora, per limitare la nostra impronta?
Anzitutto, si può iniziare riducendo l’utilizzo dell’auto e preferendo al suo posto dei mezzi di trasporto a zero emissioni (piedi, bicicletta, skateboard) oppure mezzi pubblici come autobus. Quando poi dovesse risultare necessario l’utilizzo della macchina, possiamo comunque prendere dei piccoli accorgimenti, come ad esempio spegnere il motore durante le soste, anche se di breve durata.
Sempre nella nostra quotidianità, poi, possiamo optare per una modifica sulla nostra alimentazione. Nonostante l’allevamento animale sia uno dei settori con più emissioni, non è necessario diventare vegetariani per ridurre la propria impronta. L’importante, in questo caso, è fare attenzione alle scelte che facciamo quando facciamo la spesa, preferendo alimenti di stagione e non di importazione. Anche meglio se a chilometro zero. Questo perché l’importazione delle merci, chiaramente, comporta un’enorme quantità di emissioni.
Un altro passo che possiamo fare è quello di sforzarci di diminuire la quantità di rifiuti che produciamo. Nelle piccole azioni quotidiane, ad esempio, possiamo preferire acquisti di beni senza imballaggio o, quando dovesse essere presente, riciclabile. Potremmo poi impegnarci maggiormente a riciclare, dando nuova vita agli oggetti che, apparentemente, consideriamo solo rifiuti.
Ci sono ancora moltissimi accorgimenti che si potrebbe tenere in considerazione, come ridurre l’utilizzo di energia delle nostre abitazioni, favorendo le fonti rinnovabili e assicurandosi della buona efficienza energetica della casa.
Con tutti questi piccoli accorgimenti nel nostro piccolo, quindi, possiamo iniziare a fare la differenza in grande.